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Gestione illecita delle terre e rocce da scavo

Terre e rocce da scavo rientrano nella categoria dei rifiuti? Come definito dal Codice dell’Ambiente, si deve avere ben presente che si tratta, fuori dalle condizioni rigorosamente previste, sempre di rifiuti. Pertanto in caso di gestione illecita grava sull’imputato del reato ambientale l’onere della rigorosa prova dei requisiti per invocare a discolpa la fattispecie del lecito deposito controllato o temporaneo preliminare al riutilizzo.

Sentenza n. 15450 del 13 aprile 2023

Con la Sentenza 13 aprile 2023, n. 15450, il principio è stato con forza riaffermato dalla Corte di Cassazione, Sezione III Penale, chiamata a pronunciarsi in un caso di illecita gestione di terre e rocce da scavo e sulle relative condizioni di utilizzo, una volta correttamente inquadrati tali materiali nel novero dei rifiuti, chiarendo che grava sempre sul produttore dei rifiuti stessi l’onere di provare la ricorrenza delle condizioni di liceità del deposito controllato o temporaneo, fissate dall’articolo 183, del Dlgs n. 152 del 2006.

Nel caso specifico, i materiali, provenienti da lavori realizzati in forza di permesso di costruire, erano stati qualificati dal Tribunale competente come rifiuti, ovvero cose di cui i proprietari intendevano disfarsi, ritenendo provata la colpevolezza dei ricorrenti per l’illecita gestione ai sensi dell’articolo 256, comma 1, lettera a, del Testo Unico ambientale, che punisce chiunque effettua attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, avendo depositato, in maniera incontrollata e in assenza di autorizzazione, circa 300 metri cubi di terre e rocce da scavo, provenienti dai lavori, ovvero «rifiuti speciali non pericolosi».

Nel respingere le tesi difensive degli imputati, la Corte ha ricordato i presupposti e le condizioni di legge della fattispecie del deposito cd «temporaneo» che, in tema di gestione illecita di rifiuti, se superiori al volume di 30 metri cubi, ricorre solamente nel caso in cui il raggruppamento degli scarti e il relativo deposito preliminare alla raccolta, ai fini dello smaltimento, non sia durato per più di tre mesi e sia, in ogni caso, stato necessariamente realizzato presso il luogo di produzione dei rifiuti o in altro luogo, purché funzionalmente collegato, sempre nella disponibilità del produttore.

Tutti questi presupposti non sono stati riconosciuti dal Tribunale di merito, laddove il deposito contestato delle terre e rocce era stato realizzato su un diverso terreno di proprietà degli imputati, ma non collegato funzionalmente al luogo di produzione e il deposito stesso, superiore ai limiti quantitativi, era proseguito per un periodo superiore al trimestre, non ricorrendo quindi la fattispecie legislativa di deposito temporaneo e, di conseguenza, configurando l’illecito, perché avvenuto in assenza della necessaria autorizzazione.

Il materiale depositato e non riutilizzato, sottolinea la sentenza, non poteva quindi che essere qualificato come rifiuto, laddove il deposito preliminare allo smaltimento aveva comunque superato il termine massimo di tre mesi, e avendo il Tribunale correttamente concluso per l’illecita gestione, a fronte di un deposito di terre e rocce da scavo non riutilizzate, in contrasto con la normativa del Codice dell’Ambiente in tema di gestione dei rifiuti, ovvero realizzato in assenza della autorizzazione prescritta dalla legge.

Onere della prova

In conclusione, la Cassazione, ribadisce che in materia di gestione di rifiuti l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, come previste dall’articolo 183, del Dlgs n. 152 del 2006, grava sempre sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale forma di deposito rispetto alla disciplina ordinaria.

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